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La solitudine della neve (frammento)

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... “Vuoi che ti accompagni?”

La voce dolciastra di mio marito mi si insinuò dentro i pensieri, riportandomi alla realtà. Sussultai insofferente, come se fossi stata aggredita. La mia sopportazione era a limite. Mi infilai frettolosa il giubbotto.

“No.” risposi secca. Evitavo di guardarlo. I nostri pensieri da tempo non si incontravano più. Come i nostri cuori. Lontani. Indifferenti. Estranei.

Appena fuori dalla finestra infervorava furioso l’inverno. A quanto pare era una stagione contagiosa. Dentro i nostri sguardi c’era il ghiaccio. Dentro le nostre parole c’era la neve. E la bufera scuoteva con forza le nostre anime.

Parole. Le parole. Nascono dal nulla, inafferrabili come l’aria, senza corpo e senza peso, ma pericolose, possono diventare micidiali. Possono scoppiare in aria, frammentandosi in mille schegge, pesanti come le pietre, appuntite come il vetro. Armi taglienti. Meglio tenersi alla larga dalle punte. Meglio tacere. Non volevo dirle. Non volevo sentirle. Desideravo andarmene senza lacrime e senza scene. 

“Ce la faccio.” mormorai.

Come in un banale copione cinematografico, lui mi si avvicinò. Sorrideva.

“Allora ci salutiamo.”

Non pareva per niente offeso per il rifiuto di prima, anzi mi sembrava quasi sollevato. Il viaggio che dovevo affrontare non lo preoccupava.

“Salutiamoci.” risposi con un sospiro, lontana ormai chilometri. Migliaia di chilometri.

“Stammi bene e abbi cura di te e dei bambini.”

Banalità, giusto per dire qualcosa. Ormai dovevo recitare fino in fondo la mia parte. Il pensiero corse nuovamente ai miei genitori, con loro i miei figli saranno al sicuro!

Lui sospirò come se fosse l'agnello sacrificato: “Non preoccuparti. Farò del mio meglio. In qualche modo mi arrangerò … A te auguro buon viaggio e fatti sentire appena puoi.”

Sorrise, esibendo il bel sorriso che una volta mi aveva conquistata. Maledetto quel giorno! Avrei voluto dirli di lasciar perdere: da un bel po’ che non mi fa nessun effetto. Ovviamente non lo dissi. Restai circondata dallo stesso silenzio immobile di prima.

Mio marito mi scrutò un istante come combattuto se doveva proseguire o meno, poi aggiunse con la voce grossa, una sottile minaccia velata di miele: “Vedi di comportarti bene. Io sono un uomo e certe condotte sai che non gli supporterei …”

“Non ricominciare per favore!”

Mi strinsi infastidita nelle spalle.

Tutti questi brandelli di orgoglio maschile in quel preciso momento li considerai veramente fuori luogo e mi scocciavano parecchio. Puzzavano di vigliaccheria. Puzzavano di codardia. Lo inquadrai così com’era davanti a me, con la tuta stropicciata addosso che accentuava ancor di più la sua indole molle e priva di volontà e pensai per l’ennesima volta che era meglio che uscissi prima, prima di dare spazio alla rabbia sconosciuta che spingeva con forza da sotto lo stomaco. Feci un respiro profondo, trattenni dentro la gola il bisogno di urlare, di umiliarlo, di spaccare qualcosa, magari la sua faccia intorpidita. L’aria lì dentro mi opprimeva e lo sforzo che facevo per controllarmi era veramente devastante. Scossa, tremavo per la tensione. Dovevo calmarmi!

Trovai un punto sopra la sua spalla e vi affondai lo sguardo dentro, finché le pupille cominciarono a bruciarmi.

“Stai calma!” mi imposi. “Stai calma!” ormai mi rivolgevo a me stessa in terza persona. Chissà cosa avrebbe potuto dire uno psicologo.

Il punto si allargò lentamente in un cerchio fosforescente dai contorni un po’ sbavati ed io sperai con tutta me stessa di sprofondare lì per sempre. Scomparire senza lasciare traccia. Scomparire, invocavo. Scomparire. Ma non successe niente. Dopo un minuto intero, lungo un’eternità ero ancora lì davanti ai miei obblighi.

Rimassimo come prima in silenzio uno di fronte all’altro, spingevo lo sguardo altrove per non incrociare i suoi occhi. Le parole non dette erano sospese in aria, pesanti e minacciose; le avvertivamo tutti e due.

Due estranei. Io e lui. Una donna e un uomo. Una moglie e un marito. Due mondi, due dimensioni lontane, destinati a restare lontani per sempre. Quel qualcosa che ci univa si era rotto irrimediabilmente. Ammesso che sia mai esistito.

“Sarebbe troppo lungo e complicato cercare di capire ora, quando e come è iniziato tutto …” pensai con amarezza.

Meglio andarsene. Scappare.

Agguantai la maniglia della porta.

“Non mi baci?” mi fermò lui, interrompendo le mie riflessioni e mi sorrise ancora. Sussultai.

“Che c’hai da sorridere?” avrei voluto gridare. “Cosa hai da gioire? Tua moglie parte per un tempo ancora indefinito, per un posto indefinito, per un lavoro indefinito; i tuoi figli vivranno in una casa che non è la loro; tu resterai solo a intontirti in più di duecento metri quadrati di spazio, con l’unica compagnia della solitudine; la tua famiglia si sfascia, non lo senti come si sfascia e tu sorridi. Che hai da sorridere?”

Dentro di me continuava ad echeggiare il rombo della rabbia. Vicino. Sempre più vicino. Assordante. Soffocai con difficoltà l’odio che mi premeva il petto. Mai prima di ora l’avevo sentito così violento. Immobilizzai la lingua per restare muta. “Però la farsa deve finire presto.” decisi. “Presto.”

Tutta tesa, allungai il collo in avanti senza spostarmi di un centimetro dalla porta e gli porsi la guancia, sbrigativamente. Senza nessuna, nessunissima voglia di effusioni amorose. Non ce la facevo più a fingere. Lui simulò di non capire, o forse non capiva; mi attirò a sé con la forza, sentii le sue dita come tenaglie attorno al mio braccio. Cercò le mie labbra e mi imposi un bacio violento, che avrebbe voluto passare per passione e affetto, ma conservò soltanto il sapore acro di forzatura disperata. Incapace di liberarmi strinsi le labbra. Era il mio modo di protesta. Non lo ricambiai. Non potevo. Non riuscivo a perdonargli il fatto di avermi spinto a quel viaggio, allontanandomi dai miei figli. Non potevo perdonargli la sua vigliaccheria. Perlomeno non in quel momento. Chi lo sa, magari col tempo e con tutta la distanza che si metterà fra noi. Quando il sedimento del rancore si depositerà sul fondo …

Con la valigia in mano diedi un’ultima occhiata alla mia casa; cercai un motivo valido a cui aggrapparmi per poter restare, ma non lo trovai. Era come se il mio mondo mi avessi già girato le spalle. Dimenticato. Un altro spasmo doloroso mi strinse il cuore: il prossimo passo che avrei dovuto fare mi faceva soffrire e mi impauriva. Inspirai forte, come prima di un tuffo ed uscii senza più voltarmi...

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